Gelsomino Blu

26 Maggio 2014

Blue Jasmine

Ho sempre voluto poter ritornare.

Ma come si spezzano lunghi mesi di gelo? Quando si abbatte su di te la prima gelata della stagione, non puoi che attendere il tiepido disgelo del primo caldo. Cosa accade, però, se l’inverno non si placa? Chi comanda il tempo? Chi lo addomestica alle proprie necessità e ai propri desideri? Lo stato di perenne stasi si fa presto inoffensivo, e il crogiolarsi diventa l’unica opzione.
Perdere tutto è più facile che morire. E quanto pesa una vita vuota…! o svuotata.

Vorrei chiedere scusa a chi mi ha cercato senza trovarmi. Qui, e altrove.
Non passa giorno che io non ci pensi.
Il bene non è cambiato. Sotto questa lastra di ghiaccio che mi ha immobilizzato c’è ancora un cuore che vuole battere.
E queste parole sono davvero poco, me ne rendo conto. Ma è pur sempre un inizio.

Un abbraccio a tutti,
Paola.

68

Le parole, a volte, giocano più dei bambini irrequieti.

Si nascondono e si svelano

in gruppi contrapposti di nemici e amici.

Le vedi giocare alla guerra,

con le armi fatte di plastica

e i cuori fatti di cuori.

Si puntano vicendevolmente il fuoco,

prospettando lotte di trincee assassine.

E quando l’una sembra prevalere,

l’altra, stizzosa, vuole rivendicare il suo dominio.

E’ sangue di rosso di verbi,

è taglio di lettere indesiderate.

La tua penna è il luogo del loro azzuffarsi.

Il tuo foglio, fazzoletto per leccare le ferite.

Neutrale, la tua intenzione da arbitro onesto

si lascia corrompere dall’onestà della verità:

l’inconscio prende posizione.

E si spara il cannone: date inizio agli scontri.

Marciano le convinzioni,

muovono dritte verso le più vere emozioni.

Lussuria è il vostro peccato capitale,

e, per questo male, questo

dovrà essere il vostro destino:

terra su terra

si sotterrano i fermenti che ribollono,

acqua sopra acqua

si spengono gli ardori che scintillano.

E’ troppo “si salvi chi può” per imporsi.

Troppo poco “sia tregua” per abbandonarsi.

Le parole giocano alla guerra

perché non hanno il regalo della libertà,

questo Natale.

Chi è libero non si sbrana col vicino

per sentirsi il migliore,

né tanto meno lega amicizia

con la parola “perdi!”.

Non di bronzo, non di argento,

il trofeo dell’essere libero,

ma di nulla, come il nulla dell’aria

che dà il mistero della vita.

Un oro da primo posto

essendo primo solo a se stesso

e, di nuovo, alla pari di chiunque altro.

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67. “Un suonatore”

5 dicembre 2012

67

Conosco un suonatore di musica

che quando ti guarda ti viene da morire

perché di solito dedica i suoi occhi alla libertà,

e quando sceglie il tuo viso

quale sua ciotola di pensieri

allora ti senti onorata

e vorresti raccoglierli dal fondo.

Non è fedele a nessuna e ama solo la gente.

Improvvisa ovunque e non solo canzoni.

Progetta il futuro non credendo al domani

e paga i conti di chi lo seguirà a baciare.

Ti loderà la luna, anche se è calante,

e si dimenticherà di voltarsi per salutarti

mentre vai verso il portone di casa.

Lui ha gusti che non finiranno mai di sorprenderti,

come quei quadri che vuole appendersi al muro:

un puntino al centro e il non colore tutt’intorno.

Tu ci potresti vedere il vuoto,

ma lui ci vede uno spazio da riempire.

Fiumi di birra gli inondano lo stomaco,

eppure avrà un sorriso gentile

per te che non camminerai diritta.

Rimarrai attonita per la sua profondità

e piangerai la superficialità dei suoi gesti per te.

Lui è magnanimo con tutti, a tutti regala qualcosa.

Ma non ti restituirà il favore

di avergli donato la tua giovane primavera.

La sua noncuranza non affliggerà la sua musica,

ribollente di dettagli acquistati all’ingrosso,

e i suoi occhiali neri

non ti schermeranno il cuore dalle ustioni.

Lui è uno che per un plettro si farà chilometri,

ma che non avrà tempo di cercarti su una mappa.

Mai fare programmi se il programma non è la casualità.

E se gli chiederai di ricordarsi di te

si dimenticherà chi sia stato a chiederglielo.

Conosco un suonatore di musica,

ma questo suonatore non mi conosce più.

 

Panna e fragola sa di te,

e profumo rosso della tua bocca

e delle mie gomme da masticare.

E siamo andati a vedere le stelle che non c’erano

sotto la luna piena galleggiante tra le nuvole,

e il cielo che ci carezza la fronte

sembra una mia maglietta nera,

trasparente qua e là.

E quello stesso bar sotto il mare

che ho comprato da leggere,

tu lo ami, e io non lo sapevo.

Ma ora lo so, e so che sei sincero.

E inconfondibile fragranza di basilico,

e un fiore delicatamente rosa

che mi hai messo tra i capelli.

E io che ti guardo sempre allo stesso modo.

Tanti anni se ne sono andati via

piano piano troppo in fretta,

e più il tempo scorre, più io non ti idealizzo più,

e più non ti vedo un dio, più ti amo e ti riamo

per l’uomo che sei:

un uomo accogliente i miei abbracci immaginari

e genuino a costo di ferire.

E che cosa stai cercando

mentre ti accovacci dalla mia parte

e guardi fuori e non mi chiedi di spostarmi?

La luna è coperta e non c’è,

ma c’è in ogni mia poesia

come tu sei in ogni mio respiro,

e, ora, amabilmente scomposto su di me.

E indovini titoli, e gli altri non immaginano neanche

che quella musica sia da parte mia.

E mi dici che ti metto soggezione

perché è una lingua a te sconosciuta,

e io, quando ti parlo in quella lingua,

la vedo bene la tua faccia.

Ma tu conosci il linguaggio della musica,

e il mio amore per te è polistrumentale.

E canticchi sempre,

buonanotte fiorellino che a terra sei caduto,

e il tuo cardigan a strisce blu che ti veste di cielo,

e il tuo giubbotto di jeans che non indossi da un anno.

E un anno è quanto ci ha separato.

E un tuo vecchio biglietto per Roma

comparso in quelle tasche,

e le mie confessioni timide di ricordi di te

in qualunque angolo della mia vita.

E mi raccontavi la morte di Jeff Buckley,

e io tacevo e non ti dicevo che già la conoscevo

perché amo come racconti le storie.

E sei appoggiato sul sedile

e oltrepassi le mie gambe loquaci

col tuo braccio dall’udito attento,

e quasi mi sento protetta dalla tua trappola.

Ingenuità nell’innocenza della mia speranza,

rassegnatasi a sussistere involontaria e invincibile.

Tutti mi prendono per irragionevole

e temo non abbiano torto:

ogni volta che ci sei, l’unica cosa possibile

è averti vicino.

Confondiamo spesso l’eternità

con il momento instabile

in cui ci convinciamo di averla toccata.

Che senso ha avere paura di perderla?

Se fosse come dice di essere,

o perlomeno come noi la leggiamo,

essa ci colorerebbe di certezze.

Al contrario, la nostra mente

è annebbiata il più delle volte,

e gli occhi si scambiano di posto

e le labbra fanno lo stesso.

Troppo a lungo in un medesimo luogo

pare stancare anche i chiodi.

A chi non è mai capitato di calpestarne uno?

Arriva l’attimo in cui

non ne vogliono più sapere del quadro.

E’ più il tempo che sprechiamo a sperare

che quello che investiamo nel vivere.

Ha fatto bene l’uccellino nero a volare via

subito prima che la mia foto si scattasse.

Volevo turbare il suo canto con un click

e conservare quel bucolico incanto

nella memoria di un’immagine.

Ha fuggito l’attimo fuggente, lui,

il piccolo merlo del viale alberato,

insegnandomi che il fiore della vita

non va colto per essere ammirato,

ma lasciato crescere insieme a noi.

Un ri-aggiornamento

19 ottobre 2012

Leggere qui.

64. “Un insulto”

2 ottobre 2012

Strano, sai. Proprio tu

che vanti dalla finestra di casa

tramonti d’eccezionale splendore

non sai mettere fine all’amore

con altrettanto incanto.

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63. “Senza filtri”

25 settembre 2012

Il mio capo sul braccio del divano nel salotto

si brucia i neuroni con l’immaginazione.

Canzoni vagamente allegre

sottoscrivono questa pazzia

dello star sveglia a fumarmi il cervello con te,

che ti trovi nell’emisfero destro capovolto.

Le ombre sempre più fioche sulla tappezzeria

narrano la storia della notte sempre più inoltrata,

e io ti vedo comparire nel tuo corpo, nudo,

come un dio greco di quelli che studiavo a scuola.

Ti ho sentito che premevi su di me

quella sola volta

sopra un sedile di chissà quale colore,

e poi il tuo dito tra le mie labbra.

Imbambolata nella tua bocca seppi solo baciarti la faccia,

io, maliziosa bambina che ora rivive la suggestione

di quei latenti inviti a un amore carnale.

La visione di te su una sedia

mi invogliava a rovinare il tuo bel gioco al videogioco:

ho sempre voluto spogliarmi su di te.

Conservo con cura una cannuccia rosa

di un tuo drink estivo,

la quale avevo preso per me dal tuo bicchiere

barattando la tua saliva con la mia plastica verde menta.

A me non piace la menta, a te non si addice il rosa.

Banale pretesto per succhiare un po’ del tuo sapore.

E nello spazio secco tra un ricordo e l’altro,

mi bagno un po’ di calde invenzioni mentali,

concedendo a me stessa gratuite storie di erezioni.

Nella mia fervida fantasia notturna

hai trovato la barriera impenetrabile dei miei collant

nero velato, e non hai saputo resistere

a quell’ingombrante divieto d’accesso sulle mie cosce.

Non saprei dire quanto l’intensità di queste mie parole

ti potrebbe sconvolgere.

Avresti dovuto assaggiarmi allora,

quando ero dessert delle tue giornate.

Quando i miei desideri di gioia li scrivevo negli occhi

e non sulla carta. Invece

hai resistito a ogni carezza che la mia pelle emanava,

hai scelto di negarmi l’amore

e hai preferito una puttana.

Però ricordo bene ogni tuo avvicinamento:

le tue mani che mi salutavano la schiena

le sentivo più del vento.

E sapevo che cosa volevano fare,

percepivo la loro voglia di poter rimanere.

Ma poi io ti avrei reso mio, e tu

non mi avresti più saputo salutare.

.
.
.
[Questa è la seconda di tre poesie che viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda]

62. “Soffione”

22 settembre 2012

Ti penso a gambe aperte.

Questo è omicidio preterintenzionale, ragazzo.

Lascio che l’aria lenisca il caldo

e non aprire la porta

mi porta a quest’ermetica chiusura.

Sigillo il senso di lontananza sotto vuoto

e ti faccio venire qui vicino.

Si sta bene senza preoccupazioni.

Troppo spesso chiusa in questa stanza

per avere aspirazioni.

Ne ho soffiata via una di proposito,

dopo averla già persa,

perché è giusto celebrare chi sceglie di andare.

E così ho chiesto ai petali di un soffione qualunque

di seguire il vento

e di non lasciare mai solo il mio abbandono.

Quanto mi resta è ancora qua, tra le mani:

un gambo secco

che non ha la dignità della vita.

Pare quasi come costringere un ricordo

a prendere la forma del futuro:

pura opera da prestigiatori.

Ma se diverrò io stessa

l’artefice della presunta magia

potrò forse passare

dalla misera illusa che sono

all’essere un giorno l’illusionista.

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Scosto le tende celesti di questa lunga nottata

e intravedo sfumature albeggianti di noi.

Il sole tiepido che scalda le ombre

dà luce all’oscurità che desideriamo ci occulti,

in un girovagare di parole e di strade intimidite.

Ogni curva sposta una lancetta

e ogni minuto in più

ci arrossisce del mattino incalzante.

Suadente come il canto di una sirena,

l’idea di fare l’amore con te è dolcemente insinuante.

Viaggio dietro di te.

Le mie mani si aggrappano al tuo sedile

poiché desiderano la tua schiena.

Percorro con gli occhi i paesaggi

che dalla tua nuca conducono al tuo collo

e immagino la geografia del tuo corpo

orientare i miei movimenti.

Non so esprimermi con la voce

perché la voce trema d’afflato poetico mancato.

Se solo ci fosse poesia…

Se ci fosse, ne perpetuerei l’esistenza in divenire

e, delicata, mi inebrierei della musica del tuo profumo

 – una trama di note che mi salgono alla testa,

suonando mute alle orecchie di chi non ascolta.

Sarà la bellezza

che suole passarmi accanto senza salutare

e l’insicurezza

che si contempla quotidianamente nel mio specchio

a creare questo mio prorompere di silenzio.

Così, malata di temporanea afonia,

faccio calare involontaria il sipario dell’aurora,

a disgiungere la nudità delle mie intenzioni

da un desistervi desolato.

Sappi, però, che non mancherò di sbirciare

al di là della tenda che cela il mio imbarazzo,

in attesa di poterlo finalmente sublimare

in un intenso e timoroso “ancora”.

 

 

 

 

60. “Penoso bouquet”

22 agosto 2012

Sono la damigella della sposa dell’uomo che amo.

Sono un pezzo di carne verso il macello umano.

Cammino sotto il sole del mattino,

diretta alla chiesa dove si farà il matrimonio.

Devo consegnare il bouquet alla donna in bianco,

prima che metta piede sul tappeto rosso.

A ogni mio passo maledico un momento,

dal secondo in cui ho taciuto di avere vissuto per te

al minuto in cui ho bevuto in un rum tutte le parole.

Conto per terra i mozziconi di sigarette e le gomme da masticare,

lo schifo dei piccioni e i ricordi andati a male.

Che cosa resta delle estati passate a sudare?

Di quella sera che stavamo quasi per scopare

e io ti fermai perché volevo fare l’amore.

Oggi il cielo è meno blu di come lo vuoi tu,

e questa fottuta umidità mi distrugge il trucco degli occhi.

Poco importa essere brutta davanti al prete,

tanto quello rappresenta un dio che tu non conosci.

E la cerimonia sulla spiaggia che sognavi? A quanto vedo,

 il mare dista più di un libro sull’ultimo scaffale

e la brezza è già pronta per farsi scordare.

Il tempo passa all’indietro

e il nastro sarà già stato tagliato

e i miei piedi iniziano a patire queste strade

e le mie mani ti vorrebbero solo spogliare.

“Se diventi notaio ti sposo”, mi avevi detto

davanti alla tua auto una notte di agosto,

forse notando nel mio sguardo un futuro diverso.

Sapevo allora di amare uno stronzo,

tanto quanto oggi di volerlo a ogni costo.

E quando mi parlavi dell’armonia?

Mi dicevi “non so spiegare, la capisci?”

e io annuivo in preda al dolore.

Mi gira la testa in questo girotondo di immagini,

e tra poco potrei svenire e stramazzare.

Il campanile lo vedo spuntare,

spero solo che stia zitto, non tollero il rumore.

Solo tu sai pronunciare il mio nome

e nella testa mi richiami cento volte

con apostrofi o accenti acuti.

Che diavolo ti ho lasciato fare?

Toccarmi tra le gambe e poi scappare.

Ed è ingiusto rincorrerti ora

che stai per promettere di non essere mio,

ma la giustizia non è un concetto che mi interessa troppo

e farei bene a non interessarmene affatto.

Questo mazzolino fresco e composto non è nel tuo stile,

ma forse la mia impronta lo rende più conforme.

Le mie dita gridano “una pattumiera!” mentre

altri petali perfetti sporcano la scalinata dell’entrata.

Sono arrivata.

Centomila fotogrammi

in questo mio personale album di nozze,

dai baci in via Roma ai santi di paese,

dalle chitarre appoggiate alle padelle accese,

dalle spese insieme alle cinture allentate,

dai ritornelli fischiati alle figure idiote.

Ti riconosco di spalle

mentre ficco la testa nella porta per sbirciare l’inferno.

E mentre io nei miei pensieri

scendo le scale dei giardini

per vederti per la prima volta,

lei sale quelle di pietra che conducono al corridoio della navata.

Non appena mi sfiora,

le passo scocciatamente i suoi fiori,

così anonimamente orribili.

59. “Un sorriso”

14 agosto 2012

Non è splendido il mio sorriso,

ma è splendido il ricordo che mi evoca.

Tu, che con parole elementari

lo elogi davanti ai presenti,

non curandoti ubriaco della loro presenza.

Io sento ancor più di te

l’alcol che mi canta nelle vene

e non ho respinto l’invito alle danze

di nessun bicchiere.

Brilla di attonita allegria, esplodo

in un commento stupito dell’accaduto

e ti urlo senza moderare gli strilli

che è la prima volta che…

Ma a portare a compimento la frase

subentri tu, mezzo curvo di fronte a me,

che sono totalmente incline a te.

“Che ti faccio un complimento”,

dici non sussurrando

con improvvisa fatalità.

Devi esserti allenato

a leggermi nel pensiero,

per esigenze di sconosciuti generi

o per allettare il tempo morto.

Non do altra spiegazione a questo oracolo.

Non approdo a conclusioni

nel tuo verbale oceano.

Davvero senza parole,

perché mi hai rubato le parole dalla bocca.

E con tutta onestà,

non so se rallegrarmi di questo furto

o se rimpiangere il contenuto

dell’amara refurtiva.

58. “Un codardo”

5 agosto 2012

Hai osato rendermi felice

e poi sputare sulla mia felicità.

Hai osato lamentarti dei ti amo non detti

e poi abbandonarmi senza parole.

Grazie per avermi fermato in tempo.

Lasciare la carta da lettere dentro la busta,

e la lettera stessa incompiuta.

Scrivevo con una penna così sincera

da non meritare la tua vista.

Scrivevo di una settimana passata a guardarti

e a volertelo dire in mille momenti.

Poeticità fatalmente spezzata dalla tua lunga assenza.

E le parole mai dette sono rimaste mai scritte.

Ben venga la loro inesistenza,

pregnante come la tua bassezza d’animo.

Non sono triste che tu ora stia con lei.

Sono felice che tu ora non stia con me.

Come potrei rimpiangere lo squallore

con cui hai rinnegato il nostro legame?

L’infantile meschinità con cui hai posto fine a tutto?

Dirmi amore, e vomitarmi addosso.

Dirmi ti scriverò, e lasciarmi a labbra secche.

Arido è il tuo cuore, approfittatore di valore altrui.

Non solo ti sarebbe risultato difficile essere uomo.

Addirittura ti sarebbe risultato difficile

essere una persona umana.

E dato che far di conto è una tua dote,

dedurrai meglio di me quanto hai perso a entrambe le sfide.

Saccente nel condannare chi abbandona i cani,

mi hai scaricata peggio di un animale.

Codardo a non comunicarmelo a voce,

hai trovato mezzucci di comodo,

senza avere il fegato di un confronto verbale.

Congratulazioni per questa fiera dell’ovvietà.

E poiché mi hai negato di parlarti, insultarti e maledirti,

sappi che non vorrò mai più ricordarmi di te.

Se prima il tuo silenzio mi ha uccisa,

ho poi capito che è prerogativa dei morti.

E tu hai dato chiari segnali di voler essere questo.

Lasciarmi di fronte a tutti tranne che a me

non mi ha fatto cadere inerme e priva di vita.

No, ha piuttosto segnato la tua stessa condanna a morte.

Perciò, da oggi, tu per me

sei solo un fantasma delle mie passate illusioni.

Un defunto da non resuscitare.

E se pensi che questa poesia sia per te

non hai capito niente.

Questa poesia è tutta per me.

 Non vali neanche più una poesia su una pagina.

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Volto la chiave nella serratura

e mi chiudo fuori.

Come la Signora dei Fiori in una canzone che amavo.

Lo spazio germoglia qui, dal pianerottolo al giardino,

dal portaombrelli al viale alberato.

E parto alla ricerca di una stazione.

E’ la mia meta, non un passaggio.

Una concatenazione di intenti, di fughe e ritorni.

Di ruote alle valigie, di prezzi troppo alti.

Mi siedo al binario più lontano,

se non lo conosci non lo troverai mai.

Mi sento più a casa così,

nell’incertezza del viaggio e nel degrado dei graffiti.

Nessun addio alle mie spalle,

tutti mi vogliono e nessuno mi fa restare.

Meglio ancorarmi qui, finché posso,

finché la marea di gente che mi reclama

non mi sommerga di insulti travestiti da amore materno.

Mistificare il disprezzo e spacciarlo per apprensione.

E’ troppo scontato partorire con dolore.

Almeno, qui, non devo niente a nessuno.

Almeno, qui, io non sono nessuno.

Vi è solo uno scopo: transitare.

E il banchiere e il barbone hanno qualcosa in comune.

Ho una borsa con pochi averi

e una foto che mi fa da specchio.

Ci sarà qualcuno a cui regalare il mio nome.

L’uomo degli annunci ha la stessa voce ovunque,

e il pensiero di quei numeri

e di quelle destinazioni dallo stesso tono

mi rassicurano e mi rincuorano.

Perché dove si sfreccia io voglio volare?

E’ tanto bello, qui…

Conto i passanti e conto di passare inosservata.

In fondo non ho nulla di speciale

e mi piace non essere riconosciuta.

Ma la città è piccola, e il mondo lo è di più,

e presto o tardi mi richiederanno di provare la mia esistenza.

I miei doveri, le mie scadenze.

Tutti i libri che ho preso in prestito.

Non fare un figlio se sopporti solo te stesso.

C’è sempre un orario del treno a scandire il tempo,

anche se il tempo materiale si è fermato

sul mio peso morto.

Almeno, qui, posso piangere senza chiudere la porta.

Almeno, qui, le mie lacrime si sanno confondere.

E vorrei chiamarti per sentire la tua voce,

ma non ho il diritto di rompere il tuo silenzio.

Così aspetto, e se non altro questo vuoto non mi offende.

Non essere mai al primo posto nell’animo di nessuno.

Poco importa,

senza un biglietto un treno vale l’altro.

E forse quel treno qualunque sono proprio io.

Mi accorgo che questo dolore intestino

non mi ha ancora abbandonato.

Mi stritola le viscere e mi tiene stretta

nel suo pugno funesto,

tagliandomi gli occhi di pianto indomito.

Vomito.

Ho la morte in gola e il diavolo in testa.

Non so fare pensieri puri, ma puri cattivi pensieri

e maledico me stessa per non saperli annientare.

Non ho superato il male che lei mi ha inflitto in corpo,

martoriandolo come gli sciacalli fanno coi cadaveri.

La sua facciata da essere sublime mi disgusta

e in questa guerra ad armi impari

sento l’afflizione dell’erba che si tinge di sangue.

Non voglio combattere contro di te

perché ti salverei anche dalla rupe

della mia collera vendicativa.

E ancora una volta ti metterei al sicuro.

Ragazza, cosa ti spinge ad odiarmi?

Mi rispondi:

“Io non odio te, odio solo chi ti ama”.

55. “Senza valigia”

12 giugno 2012

Quant’è strana questa felicità.

C’è per una cosa che non c’è,

ed è piena come se ci fosse.

Oggi amo l’amore per l’amore stesso,

e in questa meraviglia m’incanto

per quanto sia dannatamente romantica.

In ogni pensiero, in ogni azione, ad ogni intenzione.

Tu sei la sola presenza costante,

l’unica penna dall’infinito inchiostro,

la sola barca dall’infinito fluttuo.

Sei motore di ogni mio passo,

ragione sfrontata della mia audacia,

pazzia giustificata di ogni mia follia.

Colmo la distanza coi sogni notturni,

dove senza valigia ti vengo a trovare,

per raccogliere abbracci lunghi

come le strade che da Milano portano a Roma.

Di giorno ti compro regali,

a volte anche solo con la mente,

per baciarti da lontano.

E poi ti dedico lettere che capita

vadano perdute, se non in cassetti,

di certo nell’aria che raduna le mie parole.

Racconto di te agli artisti

riportandoti a me in presenza di tutti,

come se tu fossi lì ad ascoltare,

mentre la gente viene a sapere di te,

e tu che non ci sei, ci sei lo stesso.

Amare è come vivere una poesia,

solo che non viene impresso sulla carta,

ma sui cuori. E’ la poesia

che cessa di essere forma e diviene contenuto.

E’ la poesia che ha quattro occhi e quattro mani,

due bocche e un unico cuore.

E se passa un treno lo perdiamo volentieri

se non porta all’amato.

Se fuori c’è il sole è ancora buio

quando il nostro giorno è afflitto dalla notte.

Se sogni d’oro è invece ruggine

se lo svegliarsi è privo di lui.

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Hai ragione, amore: non ti dico mai che ti amo.

Scrivere questa poesia è come tacere ancora,

è come urlare nei pensieri,

è come sincronizzare le movenze delle labbra

alle parole di una canzone.

Ti ho parlato nel silenzio:

ogni istante vuoto di voce pronunciava afono quelle parole.

Non te ne faccio una colpa se non le hai udite.

Prego però l’ignoto dio del tuo cuore

che tu le abbia vedute, quelle parole.

La bocca è codarda, ma lo sguardo è onesto.

Hai letto i miei occhi?

Li hai visti perdere il loro colore d’autunno

ed ereditare dalle lacrime

il rosso del fuoco che brucia il presente

e che ti riporta lontano da me?

Ogni sfumatura,

ogni fluttuazione delle palpebre,

ogni ciglia desta o trasognante

era spoglia dalla menzogna dell’ombra

in cui verteva il mio timido silenzio

e assolveva il compito comunicativo

di cui sono solite le parole dette.

Non contare quante volte te l’ho dichiarato;

conta piuttosto quante volte non te l’ho confessato.

È questo il numero di volte che l’ho ingoiato,

per intero, dalla prima all’ultima lettera,

senza che tu potessi percepirne l’esistenza.

Come scordare la tua prima volta…

Come scordare la mia unica.

Fare l’amore e dire “amore, ti amo”.

Togliermi il respiro

e lasciarmi sulla lingua

una sola frase di simmetria dei sentimenti:

anch’io, anch’io.

Udirti fu come riflettermi in te,

ma il maremoto interiore che mi si scatenò in corpo

mi paralizzò bocca e senno,

prosciugandomi di ogni risposta

degna della sua dichiarazione.

Eppure lo sento, sai,

e trasformo quelle parole

in gesti, sospiri, pietanze, poesie.

Tocchi, baci, spinte, fantasie.

Attese. Biglietti del treno.

“Tu mi fissi”, mi dicesti stupito una volta,

“quando non ti guardo, tu mi fissi”.

Ti fisso per imprimere su di te

l’astrazione delle parole pensate,

perché specchiandoti tu le possa leggere.

Ma hai ragione, amore.

Per quanto la tua voce abbia suoni celestiali,

dovrei e vorrei interrompere tale idillio

intervallando la tua tacita lettura dei miei messaggi in codice

con un sonoro intreccio di lettere.

È la paura insensata di tremare troppo

ad avermi cucito le labbra sino ad ora.

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Un aggiornamento

30 Maggio 2012

Nuova pagina sul blog.

Un aggiornamento per me importante.

Leggere qui: https://poemonapage.wordpress.com/un-aggiornamento/

53. “No / Sì”

28 Maggio 2012

Vado a letto.

No, non a dormire. No, non a fare l’amore.

Vado a letto e basta,

a seguire il ciclo naturale

della luce e del buio,

del pianto notturno e del mal di testa mattutino.

Prevedo un’alba senza sole,

e quando tu mi dirai che ciò è impossibile,

io ti dirò che un sole offuscato

è come una luna senza riflesso.

La presenza negata non è forse mancanza?

La vicinanza non consumata

non è forse distanza rimasta intatta?

Vorrei spezzare un oggetto per poi ricostruirlo,

provare a me stessa che i cocci e i puzzle

hanno vita comune.

Se il domani fosse umano

chissà che volto avrebbe.

Ho visto tante raffigurazioni di Dio,

eppure nessuna mi ha mai soddisfatto.

Sono più quelli amati che quelli che amano,

come si spiega questo?

Voglio in regalo un fiore,

ma disprezzo chi uccide.

Voglio un equilibrio,

ma salgo e scendo,

ingrasso e dimagrisco,

mangio e vomito.

Donami un tuo specchio

e lasciaci dentro la tua immagine.

Scrivimi una parola e inviamela per posta.

Una sola parola basta.

Cancella la linea gialla dal binario della stazione

e fischia solo l’arrivo.

Alla partenza è sufficiente non partire.

La lancetta dei secondi si velocizza,

la luna sorge vecchia, il tè si decolora, la valigia esplode.

Non capisco, è la terra che trema

o è il mio cuore che batte a sbattere il letto?

Stare per baciarti e non aver paura di morire,

arriva così in alto l’amore?

Sì.

Perciò sali, te ne prego.

Posso trovare un nascondiglio

dietro un drappo di pensieri.

Chiudermi fuori dal ripostiglio

dove i miei sogni sono appesi.

Diluire le mie voglie

con sostanze innocue.

Sostenere che gli oggetti

non abbiano anima.

Cambiare le parole

di qualsiasi canzone.

Cambiare l’aria

con qualsiasi finestra.

Posso celarmi nel carnevale

delle mie espressioni facciali.

Censurare un’unghia nuda

con smalto carminio.

Ripulire la polvere dalla polvere

e asciugare il bagnato

dalle acque marittime.

Posso fingere l’ignoranza

e non sapere cosa ignoro.

Mangiarmi le lacrime

aprendo la bocca a sorriso.

Occultare la malinconia

sotto la coperta plumbea

della notte, e rimboccarmi

come se queste mani

fossero quelle altrui.

Posso mettere a tacere

ogni flusso sonoro,

influendo così sul mancato silenzio,

e posso smorzare la rabbia

come un pugno di sabbia

tagliato dal vento.

Potrei escogitare mille espedienti

per mentire a me stessa.

Ma essendo io

la mittente e la destinataria

della bugia,

non riesco a negare

quanto ancora

tu mi manchi.

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Questo momento lungo da Roma a Milano non doveva arrivare.
Viaggio sempre al contrario, con la meta alle spalle.
Roma, indaffarata a essere bella, riposa ormai nella memoria,
quella memoria fresca dal gambo appena reciso che profuma ancora di nuovo.
E accanto alle tue parole da poeta, le mie non riescono più a ingegnarsi
e si compongono tristi e prive di genio.
Sono triste perché o la felicità non esiste o è solo un sogno.
Avevo una felicità, ma essa dimora ora in un luogo della mente,
e anche se non perfetta, era pur sempre felicità…
Scrivo sul biglietto dell’andata, in questo ritorno che non è un ritrovare.
Attendo che il controllore attesti la mia svogliata presenza su questo treno
e mi chiedo come faccia a non piangere a ogni occhio malinconico che incontra.
Respiro dalla bocca perché il naso è impegnato a ricordare il tuo odore,
mentre mi guardo le mani disperarsi per la loro nudità senza tatto.
Forse piango perché vorrei nuotare verso te.
E ti baciavo sempre per soffocare le parole.
Era meglio non fare domande. Era meglio non fare richieste.
Vivere di fortuna, di monetine nelle fontane.
Vivere qui e adesso senza pensare alle distanze.
Non avevo mai pensato che il primo e l’ultimo giorno dell’anno
fossero in fondo lo stesso giorno.
Un tuo amico poeta, dagli occhi intensi di chi guarda il mondo con mille occhi,
mi diceva: “Sai, Paola, la distanza non esiste.
A che serve la mente se non a viaggiare verso l’ovunque?
La vita è solo un universo parallelo, la pelle è un’illusione”.
Io allora guardo te che non ricordi e cerco di capire.
So che fa freddo.
In questo limbo che pare immobile, la pioggia ha rigato i vetri del treno
e i vetri trasmettono solo vuoto.
Il buio non cancella, il buio crea.
E nel niente della mancanza di colore, vedo tutte le sfumature dell’arcobaleno.
Ho pensato a te mentre pioveva, ed è spuntato.
Al tuo amico poeta, che in seguito mi chiese quale fosse per me la morale della serata,
io risposi che ci avrei dovuto pensare.
Ora la conosco:
la distanza esiste.
Ma basta lasciarsi bagnare dalla pioggia
e aspettare che la scala dell’arcobaleno si dispieghi un po’ su di noi
e ci faccia salire.

49. “Non dormo”

25 marzo 2012

Che sonno, amore mio.

Sonno di dormire sul tuo ricordo di dolce caramello.

Sonno senza letto, né palpebre socchiuse;

sonno di sognarti in sogni astratti

dalla forma di nuvolette spumose e appetitose.

Panna leggera, monta su queste ali di glassa

e vola lontano fino a venirmi a trovare.

Possibile che non sai da chi farti accompagnare?

A me basta il tuo sorriso,

che si curva sulle linee del tuo viso

come una liquirizia a bastoncino.

Ho sonno, amore mio.

Sonno di dormire questa notte su di te

e dentro la tua memoria,

una pagina nella tua storia,

segnata dalla deliziosa volontà di vivere

nel mare di cioccolata calda appena sfornata,

insieme a un bicchiere e una cantata.

Coltivi ciliegie rosse delle tue labbra,

e speri di farne una fortuna.

Io sono come stella che ti guarda, e tu parli alla luna.

Cercami meglio, stammi addosso.

Io, più che amarti così tanto, purtroppo non posso.

La bellezza mi è sfrecciata accanto

 mille volte senza salutare.

Vivo nel mondo dell’immagine

ma vorrei vivere in quello del suono,

dove gli occhi chiusi non destano paura.

Parlo per mancanza, penso per privazione,

 lo so. Le mie sono solo le parole egoiste

di chi non è capace di eguagliare

la meraviglia del mondo.

Vedere come vengo male in fotografia

mi ricorda di come vengo male

nella vita reale – non c’è luce

o buio che tengano.

Oggi sei quello che l’occhio vede,

e guardare la mia immagine

mi mette sempre tristezza.

C’è qualcosa che posso fare per me?

Solo scrivere versi sciolti

sedendo accanto a un cappottino rosso

di quando ero bambina.

Già allora strappavo le pagine

delle riviste di moda

per deturparle dalla loro patinata

perfezione, quasi desiderosa di condividere

con esse il mio sentirmi a pezzi.

Davvero eccello in bruttezza?

Secondo queste pagine

molto probabilmente sì.

47. “Veli”

1 marzo 2012

La luna splende anche attraverso il lino bianco della tenda,

e io non posso che chiedermi

se dietro il velo di malinconia che mi offusca gli occhi

ci sia fonte di luce anche per me.

La cerco sovente negli occhi di ragazzo,

ma è un bagliore tanto dirompente che mi fonde il cuore.

Mi domando se esista sguardo non assassino.

Quello che lieve si posa sul volto con delicata insistenza.

Quello che si esprime senza pause

in un alfabeto dalle più alte combinazioni.

La ricerca è da considerarsi sospesa,

momentaneamente disillusa

da quel ramo d’albero che ora copre la visione.

Il moto della Terra ha spostato la Luna in un nascondiglio,

ed è forse così che per la mia scoraggiata felicità

si tratta solo di temporanea eclissi di Luna.

46. “Ovunque”

22 febbraio 2012

Ovunque mi giri vedo una poesia che narra di te.

L’ ogni dove è il ritrovo segreto degli amanti lontani,

al crocevia tra un sogno e un ricordo.

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Idiot, as a woman in love.

Wounded, like a dented car.

Condemned, judged by a criminal,

drawn in pencil by an old maid,

advised by a little girl.

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44. “Un assente”

26 gennaio 2012

Quanta poesia resta inascoltata, quante canzoni.

Le parole scritte a un destinatario disinteressato non fioriscono.

Qualunque sia la loro bellezza, esse restano spente.

Un foglio non è il giusto posto in cui pensarti.

Nemmeno uno spartito lo è.

Togliere le parole alla musica, e la musica al suono.

Vedere il vuoto per quello che è, non indorarlo di metafore.

Sedersi accanto a una sedia vuota, a un tavolo di coppie.

Ciao, come stai tu che non ci sei?

Dove sei? Dove sei? Non lo so, ma so dove mi puoi trovare.

Eccomi, nuda, in verità o per finzione,

in una fotografia o su un letto di pietre.

Sollevo la coperta della notte, e poi rispengo il sole.

Il letto è più caldo se non vedo la tua mancanza.

Non trovo differenza tra il non avere e l’avere avuto,

tra un orfano e un figlio di nessuno:

il presente rimane comunque un assente.

Sconosciuti che riconoscono nei tuo iride bagnato

un certo bagliore di tristezza inconsapevole,

e ti augurano un buon anno nuovo.

Vivere sapendo di morire, non è forse assurdo?

Ipotizzare l’eternità, solo nei film d’amore è concesso.

Ipotizzare la felicità, solo nell’amore è permesso.

Indiscreta nei pensieri, lascio le ombre essere le uniche forme

e non pretendo maggiore lucidità.

Vivi quello che non c’è perché prima o poi tornerà da te.

 

 

Se tu fossi regista, e io attrice,

ora mi potresti riprendere ascoltare

il suono dell’acqua cadere dalle tue dita.

Come vorrei essere pianoforte.

Esaudire il tuo sogno d’infinito

attraverso i miei tasti

e farti sospirare in bianco e nero.

Tu, che dell’arte sei allievo e maestro,

ne trarresti da artigiano della musica

il massimo splendore,

e beati ne sarebbero i presenti.

Beami ancora un po’ di queste perle di catarsi,

oh immagine sublime

che di quest’apostrofe sei referente,

e lasciati dar vita

nel buio creativo di questa stanza da letto.

Un tempo mi dicesti serio,

con l’onestà di un ubriaco,

che sarei dovuta diventare pianista.

Smettere di bramare le tue corde

per concedermi ai tocchi sopraffini

delle piume sulle ali.

Angelico fosti allora,

nella verità segreta di una frase non più ricordata;

e ci sono io che la raccolgo ora,

lettera dopo lettera,

per renderle giustizia e ricostruirne la memoria.

Mi sciolgo i capelli incatenati

e respiro libertà.

Sono libera di credere che le tue esortazioni

fossero per plasmarmi amante perfetta;

che gli occhi tiepidi nonostante il freddo

non mentissero sul loro stato di vita.

Tu non menti mai.

Piuttosto fai rispondere il silenzio,

non sporcandoti le mani,

ma non menti mai.

E se prometti ciò che non puoi offrire

dimentichi di aver messo la mano sul cuore,

così la promessa non avrà più alcun valore.

E’ per questo che ti credo incondizionatamente,

e non ho aspettative sul tutto

e non ho aspettative sul niente.

Saperti a mille chilometri da qui è angosciante.

Riascoltarti nelle note mai create

della pianista che c’è in me

inasprisce di surreale quest’inquietudine

e dà un sottofondo propenso all’infondata attesa

di un’ascesa alle più ultime realtà.

Vaneggio mentalmente.

Chiamo le canzoni con la forza del pensiero

e mi illudo che tu le possa origliare.

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Per il vostro 2012

14 gennaio 2012

Cliccare qui.

Pochi giorni a Natale e poche ore a domani.

Piazza della Scala s’illumina di freddo

e la neve colora le aiuole di bianco.

Mi piace questo posto.

Trovo che qui Milano dia il meglio di sé.

L’avvento veste di romantico gli alberi spogli

e le finestre di Palazzo Marino luccicano d’oro.

Abili pensieri hanno creato un gioco di ombre sul teatro,

e io mi fermo lì ad ammirare.

C’è un pianoforte in sottofondo,

ma non so bene da dove provenga.

Quest’aura magica mi risuona nella testa

e d’un tratto i miei occhi si incantano.

Sulla Scala vedo immagini in movimento,

grandi sagome di sogni non sopiti.

Io ho tanti sogni, quasi tutti irrealizzabili.

Li proietto davanti a me,

su quello schermo di lunga storia,

e mi godo lo spettacolo.

Come uno specchio, la Piazza si guarda

riflessa nella sua forma e nei suoi personaggi.

Un contorno di uomo spazza i ricordi di neve

sulle panche di pietra,

e fa sedere la sua donna.

Non vedo i tratti di quei volti,

ma riconosco i giochi delle loro mani:

lei in lui, come fosse il suo guanto.

La notte gelida e bianca si cala sempre più pesante

su quei due corpi disegnati insieme,

accerchiandoli ogni istante di più,

fino a comprimerli in una stretta bolla d’aria.

Vista da dove sono

– con la faccia fissa su quella tela bicromatica –

la scena è nitida.

I due amanti sembrano una decorazione stilizzata

su una pallina di Natale,

una raffigurazione evocativa di un episodio di una favola.

E mi stuzzica la voglia di sapere come continuerà…

Ma ecco che passa il Due,

col suo colore di candito.

I campanellini segnano a festa la fermata

e si sovrappongono alle note

di quel pianoforte in lontananza.

Torno alla realtà.

L’incantesimo svanisce senza che io abbia

ultimato il mio sogno.

Neanche in sogno riesco a sognare.

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41. “Jolene”

19 dicembre 2011

Attendo, senza voglia di raggiungerlo,

l’istante in cui mi dirai “non ti voglio”.

Chi vuoi, tu, stanotte?

Maledizione alle belle labbra altrui,

sempre più sirene delle mie.

Maledizione ai loro richiami disonesti,

eco di un’antica speranza disattesa.

Marcisce un po’ il mio cuore

nel percepire l’avvicinamento alla mia data di scadenza.

Io vorrei sempre essere frutto

tra le foglie di un albero in fiore.

Vorrei essere un dolce non ancora spartito.

Vorrei essere un foglio bianco

tra le pagine del tuo libro di poesie,

o se possibile

una parola fresca d’inchiostro rosso.

Vorrei non maturare mai.

E mi lascio prendere dai timori d’addio

e dalle tue mani distanti,

e mi si secca la bocca dai troppi baci

o dalle parole non dette.

Squilibrata come sei solita essere,

cammini sulla linea gialla della banchina

noncurante del treno che sta per passare.

Vorresti essere all’aria aperta,

a respirare reciprocità

in parchi a forma di cuori,

ma sottoterra l’ossigeno scarseggia

e la felicità è rarefatta.

Non innamorarti del sole,

anch’esso un giorno esploderà

e cesserà di esistere.

Faresti meglio a tornare al bianco e nero

dell’assenza di colori,

perché solo non conoscendo puoi non amare.

E gli occhi chiari dell’ennesima Jolene della tua vita

non avrebbero più ragione d’essere.

40

Il tuo cuore è una palla di sole,

e io strati di nuvole in lontananza,

sovrastati dalle sfumature della tua alba.

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Ti scrivo.

Non mi leggerai mai,

ma ti voglio scrivere.

Notte su notte

scrivo lacrime sulle gote,

giorno dopo giorno

ritorno innamorata di ritorno.

Mi trovo sempre

a invocare una penna,

che l’inchiostro sappia ascoltare.

Detto immagini di sfogo

in parole di quadro

e narro storie di appassire

in rose da raccontare.

Fedele è il quaderno

che raccoglie i miei sussulti,

profumato di ricordi stagionali.

E arricchito,

di dettagli un po’ carnali,

di scandali ideali.

Da promesse non formali

in sorrisi particolari

a idee complementari

alle idee naturali

spazia il germe del divenire amore.

E non tardi

si accovaccia sul tappeto del dolore,

come una rima che va a caccia

senza ritegno né pudore

e si accontenta dello scontato

nell’indagine del creato

e dimora in luoghi comuni non marginali

piuttosto che in quelli surreali.

Allora il previsto

prende la forma della previsione,

il mai visto quella dell’aquilone

che sa nuotare tra le nuvole

nel mare del cielo,

e sa scegliere quando toccare terra

o quando librare in volo.

Non è del tutto libero,

ma almeno può incontrare

la sua fantasia.

Non come lo scontato

che non può scontare

la sua malattia.

38. “Bastardo”

30 novembre 2011

Bastardo. Mi hai fatto entrare in casa tua.

Mi hai fissato con quegli occhi pieni di sesso. A lungo.

Cosa volevi? Che fossi io a spogliare te?

Non ti bastava la mia presenza lì, sulla tua sedia?

La mia corta gonna chiamava le tue piccole mani.

Non la sentivi gridare?

Tu, intenditore di suoni. Tu, abile poeta della chitarra.

Possibile che fossi sordo? fermo?

Eri una statua dalla forma di uomo,

un sultano su quel divano di pelle.

Solo i nostri sguardi si sono toccati.

Incontrati a metà strada,

hanno fatto l’amore per un breve istante.

Poi ho deciso di voltarmi.

E non ti ho fatto più entrare.

 

Il mondo la notte ha sonno.

E’ per questo che ti lascia sola.

Sola a respirare ispirazione.

Sola a invocare liberazione.

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36. “Un po’ nuda”

20 novembre 2011

Gambe nere di autoreggenti e pelle scoperta,

sul pavimento gelido della mia stanza da letto.

Mi piace essere un po’ nuda mentre scrivo queste parole.

L’afflizione d’amore s’accascia su di me

come uomo che mi getta a terra,

e, piegata su me stessa, percepisco lieve il mio profumo.

Nella luce smorzata del lampione attraverso la tenda

intravedo nello specchio una figura discinta.

Ora mi sento meno sola.

Un tocco che non pare il mio si fa strada

dal reggiseno ai suoi segreti,

e nella presa morbida delle voluttuosità che m’appartengono

giurerei di essere qui insieme a te.

Prona o supina in base a dove ti sento

illudo l’aria di poterti incontrare,

ed essa, provata dalle mie menzogne,

punisce i miei sensi ricordandomi dell’inverno.

Ogni piastrella mi punge di freddo,

e i miei occhi vedono i miei stessi occhi riflessi.

Quella stretta che si aggrappa al mio petto

è calda come le tue mani da panettiere,

e io non mi voglio affatto coprire

perché coperta o vestaglia

sarebbe sipario di questo vivente mio sogno.

Non ti so dire di no poiché no non sussiste.

Cos’altro è un no se non

del tuo nome la prima e l’ultima lettera?

Sei tu la negazione, non io.

Io non faccio che accondiscendere all’illusione di te

e discendere con la mano sempre più dentro me.

35. “Scripta manent”

13 novembre 2011

Poco fa mi è venuto alla mente come non l’abbia mai fatto

di scrivere a penna le parole ti amo.

Mai le mie mani hanno fatto quel movimento,

un gesto lento e affusolato che delineasse

su una superficie di qualsiasi genere quella forma.

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Stasera mi sento brutta. Priva di valore.

Sarà la solitudine, che di nero mi vestiva,

ad aver dipinto il mio specchio.

Non c’è specchio più assassino

dello specchio dei miei occhi.

Ne resto trafitta.

Vedo ciò che sento, che in questo momento

altro non è

che un grosso carico sulle spalle.

Sono pesante. Mi vedo in tutta la mia gravità.

Incedo a passi gravi sulle pietre del pavimento,

affondo una massa deforme nelle pieghe del divano.

Sono qui per cosa? Per guardare.

Gente felice e ignara della propria felicità.

Per contrasto mi misuro,

come una matita a grafite

su un pezzo di carta segnato.

Il loro colore è il nero del mio buio,

e io mi sento nuovamente brutta.

C’è qualcuno qui che mi vede bella?

Se c’è, parli.

Insultatemi pure, vomitandomi addosso

la verità.

Io non piangerò

perché avrò già capito.

Desisto dal farmi un nulla.

Desisto,

e tutto è davvero troppo.

Stanotte ho fatto una scoperta: tu hai una forma.

Essa si appisola sul letto. A volte sorride. A tratti si sposta il ciuffo,

sempre con lo stesso gesto della mano.

Di tanto in tanto parla, con piccoli intercalari in lingua straniera,

a passo di jazz, sulla stregua dei versi del piacere.

Improvvisamente scoppia a ridere, in una risata sonora,

e breve, tanto quanto l’illusoria percezione

del tempo passato dall’ultima volta che te l’ho sentita creare.

Costantemente ascolta, e segue il ritmo con la bocca.

In certi momenti sembra che essa pensi,

ma quello che pensa, chissà.

Poi mi guardi dritto negli occhi, puntando gli occhi all’obiettivo.

Quel tuo sguardo un po’ perso nel vuoto,

che ho sempre amato come opera d’arte vivente,

si ripropone alla mia vista, fissandomi a sua volta.

Ti rileggo gli occhi e ogni riga della faccia.

E’ quell’espressione che preannuncia qualcosa di buono.

E a me viene voglia di mangiarti, come per un cucchiaio

il suo dolce. Mi gusto ogni tuo sapore,

attraverso uno schermo che però è inodore.

Alla fine sposto lo sguardo:

il tuo è amabilmente perso.

Il mio, invece, guarda inesorabile nel vuoto.

Non dovrei stare qui a scrivere ancora di te,

nel buio di questa notte, alla luce dei miei ricordi.

Rievocarti è un male, e io non dovrei starti a pensare.

Infatti non ti penso, ma sento la tua voce,

e quell’indelebile profumo di musica sulla pelle.

Non voglio più considerare un tuo ritorno,

né adornarti con ogni mio gesto.

Le piogge di sorprese con cui ti bagnavo

ti hanno prosciugato la gentilezza,

perciò tornerò a splendere fino a bruciarti,

se questo mi servirà a cambiare.

Addio, allora, ispirazione di te,

addio, a mai più rivederci,

se non sotto spoglie differenti,

diffidenti da chi vorrà vedere

altro mio amore per te.

Forse un giorno sarò così pazza

dal farti leggere tutte le parole,

quelle mie che ha scritto il cuore,

nell’anno che ho trascinato avanti

senza vivere né morire.

Ma nel frattempo provo a smettere con te,

che sei la mia dipendenza alla nicotina.

Un bicchiere di rum andato a male.

Un pezzo di vetro non raccolto.

Salto dall’altra parte:

provo a non tagliarmi.

Strani modi di comunicare, i nostri.

Sarà che tu non hai molto da dirmi,

quando io invece ho voglia di svelarmi.

Saranno le liquirizie, le distanze e le delizie

a ispirarci questi giochetti sottili di tiro al bersaglio,

con messaggi in codice dalle sembianze di consiglio.

Le nostre dichiarazioni, sotto forma di canzoni,

sono quanto di più sensuale io conosca,

perché così sensualmente si insinuano nella mia mente

ronzandoci dentro a mo’ di mosca.

E a ogni ascolto di una tua canzone

rimando a te quell’emozione,

sintonizzandomi col mio pensiero

sulle frequenze del tuo, finché il testo

che in esso proietto diventa anche suo.

Deciframi i tuoi segreti quali due amanti lieti

che si ritrovano nello stesso letto

e con un solo cuore nel petto.

Decodifica il mio amore come un giorno di ventiquattrore;

lo so che sembra strano, ma non lasciare che ti ami invano.

Rinvieni la chiave che volta la serratura

e, una volta trovata, entrami con cura.

Fa’ passi lenti, ma non temendo la paura,

tieni i lumi spenti che fa già luce la fessura.

Angusto è lo spiraglio dal quale mi vedrai,

come a dirti che non dovresti smettere di sognarmi, mai.

Sebbene le parole abbiano spesso una veste felice,

capita a volte che si comportino da attrice:

ammalia e seduce mostrandosi vogliosa

per poi scoprirsi e non trovare più la sposa.

In quei momenti maledico allora i nostri giochetti,

così afflitti dai tuoi mai e dai furbi dispetti.

Sei scaltro ad allontanarmi con le parole,

ma non abbastanza uomo da farlo alla luce del sole.

Non penso si ricordi di te.

Sai, a dire il vero si è già scordato.

Perché è facile dimenticare l’amore

che è troppo amore

o un bacio che è troppo baciato.

Meglio la mediocrità manifesta delle pianure,

che le montagne a confronto vivono troppo in alto.

Si perdono nelle tue insonnie

i sogni che non hanno tetto;

piovono giù per le scale

fino a toccare terra

ed essere calpestati dalla polvere,

irrespirabile e irreprensibile.

Sputa la verità che trattieni in gola

come sigillo di una bugia

più grande del tuo stomaco malandato.

E c’è Debussy che per caso ti fa compagnia

nella notte che è quasi mattina

e sopra divani che sono quasi spiagge,

per te che tutto si collega a una canzone.

L’unica luce è un artificio di falsità,

il sonno un’astratta entità,

il tempo un pendolo che non va.

Senza contrasto e senza ritegno

il dolore ha la faccia di un insonne:

bianca e spenta lucidità

che meno dorme e meno sa

distinguere l’inganno dalla realtà.

E si ammira con fedeltà

sul riflesso sommesso della sua sedentarietà,

dimora di ovvietà

che finora e fino a sempre

abiterà.

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Ventisette ottobre.

Ore una e quattordici della notte:

è quanto segna lo schermo

di questo aggeggio insensibile,

sopra la fotografia

di un pomeriggio azzurro cielo,

scattata sdolcinatamente

in un momento di romanticismo nostalgico.

Quella luna del pomeriggio

riecheggia sogni

non ancora addormentati,

rintoccando scadenze

mai del tutto passate.

Ora che attendo di vivere il giorno

che mi ritroverò sulla testa

accanto al cuscino,

mi chiedo se quel giorno, tu,

ti ricorderai di me.

amore cieco

Ciottoli in un fiume sono piccoli sassi

nei passi lenti o scontrosi delle acque.

Eppure metafore dell’amore trascinato,

dall’amore stesso trainato,

come mi insegnò allegorico il poeta cantautore.

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Di nuovo. Qua.

A farmi tessere i fili del cervello dalle tue oscure idee.

A contemplare la poesia sperando che diventi luce.

Io non ci capisco più niente.

Mi sembra di capire troppo o di non capire affatto.

Ho paura, se penso di aver capito:

quanto ho capito non può essere per me.

No. E’ troppo.

Troppo incantevole per non essere un trucco.

Troppo infuso d’amore per non essere indifferenza.

Allora dimmi: sogno?

No perché io sogno sempre le tue mani,

le tue mani che suonano.

Non possono essere vere quelle dita…

ma perché mi toccano?

perché mi sfiorano la pelle mentre la pelle dorme?

I ricordi inventati dei tuoi tocchi

risuonano dentro di me, a suon di cuore.

Io li registro e li continuo a far suonare.

Sarà per questo che a volte sento il mio cuore

troppo alto e troppo forte per non poterlo ascoltare.

Sarà così, un richiamo d’attenzione

quando la musica parte senza averla fatta partire.

Dice: eccomi, vibro in te.

Scorro nelle tue vene portando parole nel tuo sangue.

Fluisco. Cerco una via, e altro non trovo

che un sentiero verso il cuore,

dove tutta l’anima confluisce

e, confluendo, trema.

Non temere questi brividi regolari e accelerati,

sono la scossa che ti fa ricordare di me.

Soffri in silenzio, lascia cantare

chi sa davvero farlo. Io, canterò per te.

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Rincorro sogni correndo più forte di loro

e sorpasso le verità non lasciandomi seguire.

Così mi ritrovo nel bel mezzo del nulla più aperto,

come è il cielo senza luna.

Scorgo la meta percorrendo il paesaggio,

intravedo la fine già a metà del viaggio.

E non mi oriento tra la folla se la folla è solitaria:

più persone come una

non fanno che confondere come nessuna.

Chiedo un braccio a chi è cieco,

e il cieco mi chiede un occhio.

Rispondo che tanto non so vedere

se sul cuore c’è il malocchio.

La sfortuna di chi non è corrisposto

è la fortuna della poesia,

che si nutre di un vago vasto

nel mare della sua sofia.

Corrode le menti più acute nei girovagare di parole,

ritrova quelle perdute nei girotondi fuori le scuole.

Come se la tua infanzia vivesse una nuova gioventù,

restituendoci bambini senza peccati né virtù.

Quando il mondo ha il senso del nonsenso,

e la nitidezza della chiarezza

 rispecchia il mistero dell’incomprensione,

allora, se ad oggi mi sento incapace di capire,

capisco che fanciulla sono di nuovo finita per tornare.

Solo che un tempo il non trovarsi più

era lo specchio di un gioco ingenuo,

del tutto privo di quell’incertezza asfissiante

che oggi ci arresta il respiro

e ci induce a domandare a un passante

quale sia la via più adatta da imboccare.

Chiederemo sempre indicazioni,

eppure seguiremo soli la nostra strada:

chissà che mai conduca a ritrovare chi siamo.

Appunti.

Di una felicità so di essere felice: quella dei sogni belli.

Mi chiedo come sia possibile,

visto che la loro inconsistenza ha lame da coltelli.

E tagliano e recidono i rami della realtà

mentre zitti si annidano sulle radici della volontà.

Crescono fiori di speranze in giardini di vanità,

coltivano un amore di vuote qualità.

Perché la pienezza è quella dell’onestà,

la cui patria non dà dimora a chi invece se ne va.

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“Tu non c’eri”.

No. Non dirmi così.

Negando la mia presenza al tuo richiamarmi

non fai che esaltare la pienezza

della mia mancanza di addio.

Io c’ero. Io ci sono stata.

Tu, ci sei quando non ti trovi.

Tu, vai via se non ti perdi.

Chiamo le oscillazioni coi loro nomi d’arte

e ti regalo in dono un’altalena.

Giochi. Ti piace giocare.

Su e giù, come acqua che hai ingoiato

e che non vuoi digerire.

Respiri al contrario.

Vomiti sentenze in singhiozzi soffocanti

e affatichi la voce strozzandoti coi lamenti.

Vuoi scoprire il tesoro?

Cercalo.

Se si fa trovare da solo, e tu guardi altrove,

è lo stesso nascosto.

Vuoi conoscere la verità?

Ascoltala.

Se la invochi, e parli sulle sue parole,

non avrà lo stesso una bocca.

Voglio capire se la tua poesia

rispecchi la poesia che sei.

E se davvero voglio capirlo

devo smetter di chiedermelo.

Buio, sonoro come quello di un cinema.

Odio il buio del cinema perché so che in quel buio

non ho nulla da trovare.

Se cerco una mano, non c’è nessuna mano da carezzare.

Se una spalla, nessuna spalla su cui poggiare.

Mi posso voltare, e voltandomi sognare,

ti potrei guardare senza sapere di immaginare.

E’ notte a tutte le ore in queste sale,

mentre uno schermo riflette luce da interpretare.

Lei è stella, tu sei firmamento,

lei è vera, tu sei solo un intento.

Perché le sue storie hanno corpi, forme di esseri umani,

le tue sono corti, come dall’oggi al domani.

E se intorno osservi la gente

ti avvedrai ancor più di quanto tu non hai niente,

se non una triste felicità per un uomo che non sarà mai qua,

per un amore che ti respingerà e che ti logorerà.

Voi, che d’essere amati avete il privilegio,

pensate mai di svelarne il sortilegio?

Perché se si tratta di magia, apprendista mi farei.

Se di trovare la via, bussola diventerei.

Non vantatevi di quanto avete conquistato,

di quanti baci avete dato.

Perché la vostra felicità

è il negativo della nostra tetra verità.

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Cerco.

Cerco senza trovare.

Quel pomeriggio non fu di studio,

come doveva essere. Ma di poesia.

Eri bellissimo, quella sera,

e nel pomeriggio dopo io ti volevo invocare.

Così lo feci: seguii l’ispirazione

che la tua apparizione

mi aveva lasciato sulle labbra delle dita.

E scrissi.

Non avevo grandi parole con me,

non me le ero portate dietro;

ma cercai di dedicarti con tutta la mia dedizione

l’onesta devozione che si era insinuata in me.

In me, per te.

Pura la spinta inarrestabile

che mi lanciava verso le tue mete.

Travolgente l’insanabile desiderio

di pendere dalle tue labbra.

Così, in un gioco appagante di scambio di ruoli,

barattai il tuo culto con la mia preghiera,

offrendo con religiosa pietà

la mia anima appena consunta di neonato amore.

Scrissi della panchina da cui ammiravo il tuo splendore,

(e ancora non ti conoscevo).

Scrissi dei tuoi piedi, così musicali e garbati,

e della loro danza su se stessi e sulla mia ombra,

(e ancora non potevamo ballare insieme).

Scrissi delle ore e del loro volteggiare,

(e ancora eri per me attorno a mezzanotte).

Scrissi della prova che dovevamo affrontare,

(e ancora eri per la certezza

terreno incolto da raschiare).

Cantai della voce che la tua chitarra accompagnava,

(e ancora non ti avevo davvero sentito parlare).

Cantai dell’esplosione che mi implodeva dentro,

della nozione di improvviso sgomento.

Dell’altare di te divino, della tenerezza di te piccino.

Grazie ai ricordi incisi sulla memoria di un foglio

potrò toccare con mano i primordi del risveglio

di un cuore malato di non amore,

di un colore affetto da timido pallore.

Nella chiusa dell’ode,

un’onda (a vento) di accorata speranza

travolgeva le porte aperte di un finale senza fine.

Spalancava le imposte sui più verdi giardini

e collezionava, a sua insaputa, rosee previsioni

sull’avvenire di quello stesso paese,

residente nella mente

o esistente da sempre senza un indirizzo permanente.

Io la cerco, quella mia poesia, ma non la trovo.

Allora ispeziono dentro di me

e lì, sola, ti rivivo.

19. “Redento”

14 ottobre 2011

Sai, è difficile rimproverarti

qualcosa,

perché hai quella bontà

che ti si intravede negli occhi

che perdona

qualsiasi cosa.

Quella tua fotografia

la fisso, incessantemente.

Sono passate due ore, ormai,

e ancora non riesco

a toglierti gli occhi di dosso.

Hai l’espressione un po’ stanca, ma serena.

E’ la serenità della tua libertà,

spazio aperto della tua vita,

impenetrabile da questo schermo.

Sebbene le possibilità

ci consentano scambi,

la verità ha la faccia smarrita:

non ti sa rinvenire per davvero

senza un contatto di occhi.

Questa pagina, che di carta non è fatta,

crea l’illusione di un dialogo di sguardi.

E’ un lontano più vicino

di quanto sembra,

e tuttavia non ancora abbastanza.

Tu trascorri i pomeriggi,

suoni via le giornate.

E cosa sento io

se non rumori bianchi,

costanti supplementi della tua voce?

Dimmi, a chi dedichi le tue canzoni?

Chi inviti coi tuoi suoni?

Sono stata solo una passante

sulla sponda dei tuoi pensieri.

Solo un oggi che passerà ieri.

E lì, che mi hai dato la vita,

lì mi hai lasciata.

Impietrita come insetto nell’ambra

condannato a esistere per quello che era

senza poter divenire di sera in sera.

Ho reciso i passi di un albero che non crescerà,

ho posto la mia fine ad un’estate fa.

Lì mi sono arrestata, e non trovo riavvio.

Lì mi sento tornata e non ne trovo l’addio.

 


Stasera ti ho intravisto nel gelo della neve.

E come al solito, mi servo di tutti i miei sensi

per rivivere il tuo splendore speciale.

Ti sfioro la voce, ti gusto la pelle.

Ascolto il tuo sapore di compositore maledetto,

odo il tremore che mi palpita nel petto.

E’ raggelante la mia insistenza a questa ossessione.

E’ deprimente la pazienza della passione.

Che esplode al sol nominare il tuo nome,

ma attende incomprensibilmente una tua dichiarazione.

Nulla sa essere univoco quando si tratta di me:

sono costretta ad amare con odio,

sono condotta a respingere con amore.

E in questa lotta a chi è il primo a morire,

è il mio senno già debole che rischia di perire.

S’arranca saggio nelle parole delle amiche,

si violenta adagio in memorie antiche.

Ricordandomi di te, scordo di vivere per me.

Ancorandomi a te, ignoro di affogare a ogni “se”.

 

 

Mi ossessioni.

Queste lacrime taglienti parlano di te.

Mi scivolano dagli occhi sul viso

bruciando un solco sulla mia pelle,

troppo giovane per un tale dolore.

Il mio amore è soffocato da questo silenzio,

mentre io sogno il rumore

percuotere le mie membra

bisognose del tuo tocco.

Toccami l’anima con le dita,

colma la distanza infinita.

Scoprimi per quello che sono,

una folle assuefatta di te.

Ritrova i giorni dell’abbandono

e unisciti a vita a me.

Voglio stare vicino a te

quando ascolti per la prima volta una canzone.

Voglio spiarti silenziosa

mentre entri nella favola di quella prosa.

Vederti stupirti per una rima ricercata,

vederti ammutolirti per una realtà da pugnalata.

Soffrire con te se le note lasciano dolore,

sublimarmi in te se parlano d’amore.

Nuotare tra i tuoi pensieri appena nati,

sbocciati ispirati da quella creazione dei poeti.

Annotarli e cristallizzarli

su fini foglie d’oro,

come a dire che si meritano solo preziosi custodi,

loro.

Tu, che di certo parli la lingua dell’arte,

coltivi le meraviglie di cui io voglio essere parte.

E amo osservarti dare la vita

ai monumenti che ti descriveranno,

in un’anteprima fiorita

prima del finire dell’anno.

E se davvero ti guardo accovacciato

e rivolto verso me,

mi rendo conto che sto sognando

qualcosa che in verità

non c’è.

Che cosa c’è nella misteriosa voglia di farsi attraversare dentro?

La mia anima è tra le mie gambe: io la sento mentre piange la tua assenza.

Sono lacrime dense, queste rimembranze di desiderio inappagato.

Sono pulsioni che mi bagnano di un mare fragoroso e agitato,

bianco nella schiuma dei fluttui contro l’approdo della costa.

Inappetenti di te mai, le mie sponde dischiuse si sentono vuote.

Ciascun labbro del mio corpo s’illude nella fantasia della tua consistenza

la quale innamora la pelle a tal punto da non saperne diniegare la bontà.

E’ così che mi accaldo, pur priva dell’opera del tuo martellante vizio,

tanto rigido e intransigente come voluttuosamente lo ricordo.

E’ bello essere mia. Tu non ti meriti la morbidezza vellutata dei mie seni.

Turgidi, i miei capezzoli vorrebbero sfamare la tua bocca dalla forma di chimera,

mentre raccogli con un dito le verità che stanno in fondo alla mia stanza segreta.

Nella tua mano immaginata c’è la mia malinconia.

Tengo gli occhi chiusi, al riparo dai tuoi e dalla loro indecente stereofonia.

Memoria e libido si confondono l’una nell’altra

ritrovandosi nelle azioni del mio tocco di donna.

Spingo forte fino alla sorgente, versando umori d’estasi fallace.

Batte. Batte come un cuore che nutre la vita e che ne vuole sempre più.

Arrossata per le carezze nel mio scivoloso palmo consacrate,

l’anarchia del mio ventre si fa trasudante

e, digiuna di te, compensa la tua miserabile distanza

col nettare caldo delle sue cosce languide e disadorne.

Voglio ascoltare la musica insieme a te.

Sdraiarmi su un cuscino morbido vicino a te.

Seguire le parole nei tuoi occhi,

battere il ritmo nel tuo sguardo.

Nessuno mai mi legge lo sguardo.

Sai, nessuno mai.

Nel tuo si può pescare,

tuffarsi in un pozzo di profondità.

Dove si tocchi il fondale

è misteriosa incomprensibilità.

Voglio dirigere il tuo respiro intonato

nell’armonia che ci sovrasta,

e cantare con le occhiate sonore

della nostra comoda orchestra.

Facciamo un delizioso concerto,

io e te assieme.

Sublime

come il sublime inseparabile del cielo

che sdraiato sulla terra

la spoglia del suo velo.

E in un’eterna prima notte di nozze

ama la sua sposa non appena fa notte.

Così io suolo,

tu volta celeste,

sta’ sopra al mio cuore

nudo della sua veste.

Soffia intime passioni,

fa’ piovere di gioia

calde emozioni.

Bisbigliami all’orecchio

le tue mani avide di pensieri,

sfiora sulle mie gote

le parole dei cantautori.

Che almeno loro s’arrogano il diritto

di chiamarci

dolci amori”.

Predìco il passato insieme a te.

Pongo domande ai miei “perché?”.

Interrogo questioni che vengono da sé

rispondendo a responsi di chissà che.

Viziosi i circoli

che rettamente s’allineano

in file continue

spezzate da lati

che rigidamente s’incurvano.

In virtù del loro malcostume

virtuosamente non scordano il vizio,

e sulla faccia accipigliata di un tizio

notano ciechi la sua felicità.

Occhi slabbrati, dettagli generalizzati.

Cuori quadrati, singoli spaiati.

La via alla verità è assolutamente

relativa:

se scegli al bivio di proseguire diritto

avrai scelto relativamente

alla tua indecisa

assoluta caparbietà.

Chi si ferma è perduto

mentre avanza nella relatività,

e trova la certezza

nel dubbio di chi sa.

Lascia segni profondi

sulla superficie dell’acqua –

col morto a galla affondi

campando di superficialità.

Sguardo sboccato, perfetto non immacolato.

Vivido slavato, unico accoppiato.

Sei un astuto sprovveduto,

uno zoppo senza braccia.

Solo tentacoli ingannevoli

in una stretta

che mai m’abbraccia.

Mi disseto del liquido nero

della notte inoltrata,

mi avveleno di noi

e di quella notte mai passata.

Se conto i minuti

perdo il loro conto,

se conto gli attimi

non ne basta il momento.

Credo nell’eternità,

ma non della durata:

della profondità.

Non gioco alla poesia:

chi si contraddice è semplicemente

la realtà.


11. “Pazza”

27 settembre 2011

E’ facile innamorarsi di te.

Troppo facile per me.

Tu sei un incanto che vive di magia,

una musa lontana che ispira follia.

Ed io sono pazza di te,

pazza da legare.

Pazza come una matta che non sa ragionare.

Pazza tanto pazza da non volersi curare,

pazza di voglia di poterti amare.

Ed esplodo in urla di dolore,

ma la sofferenza non è abbastanza

per chiamare un dottore.

E così non mi do tregua

e impazzisco di te,

mi nutro della tua distanza

e ti bevo col caffè.

Perché tutto mi ricorda te,

anche le tazzine di plastica

da portarsi con sé.

Come quelle due che ti portai

l’ultimo giorno che ti incontrai;

entrai nella tua casa come un’amante desiderosa,

varcai la soglia come una bimba bisognosa.

E già ero pazza, pazza di dirti tutto.

Pazza di confidarti

il mio amore muto.

Ammiravo e fissavo il tuo sottile corpo

nello spazio,

pazzo anch’esso di volersi sazio.

E quella mano che su e giù andava

mi disegnava carezze

che la mia gamba accoglieva.

Le mie mani sul tuo volto

ti rendevano coperto:

non capivi che era un modo

per rivestirti d’affetto?

E quando in piedi ci ritrovammo,

io pazza non intesi cosa osammo,

addentrandomi sciagurata

nei vicoli ciechi della realtà.

Ti chiesi:

i miei occhi ti mancheranno?

Ma il tuo buio mi rispose senza inganno,

e la vista del silenzio

mi rese visibile ciò che udimmo.

Ti sedesti e prendesti quel caffè.

Mi sono dimenticata lo zucchero,

ma tu lo bevi amaro.

Proprio come te.

Arriva splendente di luna piena, questo 11 gennaio accorato.

Eri così pieno di cuore, quel giorno stesso in cui il tuo cuore si spense.

E il tuo ultimo battito deve essere stata una musica,

una poesia eterna di infinito addio.

Una traccia di te nell’oscurità dell’oblio,

una dimenticanza perenne dalla quale ti ha reso legittimamente indenne.

Leggo le note sublimi della tua speciale poesia,

le stesse note di cui certo si innamorò la tua malattia.

E fu per questo che te ne andasti lontano, via:

perché lei non poteva vivere senza la tua maestria.

Così ti sequestrò dalle quinte di questo mondo

e ti relegò su un palcoscenico verecondo,

vivente in dimensioni più grandiose

– tu chiamale a piacere paradisi o stanze sontuose.

Lì avrai da suonare il mandolino di un angelo

e la chitarra del Signore, che pregherà te di addolcire le sue ore.

E quando anche all’Onnipotente allevierai il malincuore,

allora anche sulla terra avrai taciuto un po’ di dolore,

emozionando la gente col tuo immortale soffio d’amore,

così delicatamente instillato nelle tue rime da verseggiatore.

Perché tu, nel fondo del fondo, non sei mai partito.

Perché tu, di cantare mai stanco, sei rinsavito,

da quando gli occhi umani vedevano i tuoi occhi di abissi toccare il fondo,

da quell’istante sei salito e trasalito nel profondo.

Nessuno sa come fai ad arrampicarti verso il basso,

a darci una spinta in su non guardando in alto,

ma dentro di te, in quel lungo pozzo che della tua anima contempla la forma,

come se togliendoti la vita la vedi subito che ritorna.

Dormiva il tuo cancro maledetto finché risvegliandosi

fermò il tuo petto, che ora rintocca nei campanili di stelle

come melodia di buone novelle.

Questa luce dal suono incantato, sfavillante quanto il tuo geniale creato,

eleverà gli spiriti dei tuoi innamorati e conforterà i disamori dei distaccati.

Pecco di scarsezza di giorni d’amore,

io che dell’amare te sono ancora all’albore,

ma la ricchezza di quanto ho scoperto

mi rende più ricca di momento in momento,

come se inaspettatamente ogni singolo strumento

si fosse fatto tutto d’un tratto concerto.

E mai mancherò d’esser grata al ragazzo

dagli occhi belli come i tuoi, lui, nunzio

di una meraviglia sconfinata, la quale lì lì mi ebbe come fulminata

e, senza quasi accorgermene, sulla tua via incamminata.

Una seduzione immediata fu quella che lui ebbe per te intermediata,

portavoce del tuo regno di buona malia,

messaggero della tua cantautorale fantasia.

E mentre Milano ricorda la neve, io ricordo te con questa lettera lieve,

che mai avrà la presunzione di aspirare

alla stessa tua assunzione alla Rosa dei beati cantori,

sui quali petali bianchi tu di gran lunga affiori.

Ogni tua canzone la tua immane grandezza decanta,

in ogni stagione, anche in quella dell’ossiacanta.

Ciao Fabrizio.

 

9. “Tutto e dappertutto”

25 settembre 2011

Tutto.

Tu sei il tutto.

E più provo a spezzarmi da te,

più a te mi unisco.

Ti rivedo dappertutto.

Ogni cenno della natura accenna di te,

e di certo non è per sua natura.

Sono io a contemplare la tua presenza

anche se non siamo

in presenza di te.

Son io a ossequiare estasiata

parallelismi

che per me sono invece

puri soggetti.

Colgo l’occasione per scorgerti ovunque,

e non mi perdo lo spettacolo di vederti sempre.

Nei titoli di coda

leggo il tuo nome,

nella neve che cade

il tuo stupore.

Nello struscio di pioggia

il tuo tocco sottile,

nel colore dei miei capelli

il tuo cognome.

E ogni ‘che’ è una metafora di te,

come una canzone di De André,

come una stazione che non c’è.

Perché treni e binari non si combinano bene

tanto quanto le parole

assieme ai suoni,

e il loro connubio sfreccia sopra le vie

doppie dei ricordi di stagioni,

e la memoria intreccia emozioni vissute

o mere suggestioni.

Ho tracciato una linea che dal viso conduce

alla tua bellezza:

ha direzione ovunque,

quantunque si miri

all’onnipresente purezza.

8. “Rime senza titolo”

19 settembre 2011

Amore amaro che d’amar non vuol pensar,

umore scuro nero notte da sognar,

edulcorar la pillola con idee nuove da pullular,

fin ad accender la lucciola, fragile torcia per illuminar.

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7.

18 settembre 2011

Il miracolo di questa neve rende questo momento eterno

per ogni fiocco bianco che attecchisce al terreno

o che si posa sulle foglioline del cespuglio

al di là di questa finestra, nel buio della notte più chiara che c’è.

Hai mai fatto caso al cielo quando ci soffia la neve?

E’ più lucente del solito. Forse è il colore del suo sorriso,

così tanto lieto. Guardo stupita al di là del vetro

la magia di un natale alle porte. E fiocco dopo fiocco

scarto il tuo regalo per me. Quel regalo che hai tenuto

solo per me, fatto di letti di prati morbidi,

di ricordi ovattati da melodie che ho dedicato all’incanto di noi,

di illusioni nel sogno avverate, come vederti passare di qua,

sul tappeto soffice di candore e gelo,

vicino alla finestra della sera divenuta notte,

accanto al lampione che disegna la cornice dello spettacolo,

con la sua luce raffreddata dall’inverno

e raccolta sotto una coperta di suggestioni e piccole albe.

Cambio canzone. Resto sola ad aspettare la neve di te,

che non verrà. No; lei non verrà, mio dolce Valentino.

Un passante passa, rapido scorre sul marciapiede.

Lui ritorna e io lo invidio che ha qualcuno a cui ritornare.

Non pensavo che le mie lacrime potessero avere

la stessa consistenza delle gocce di neve fatta pioggia.

Le vedo scorrere e piangere giù dalle foglie,

immobilizzate dalla malinconia del freddo che le riveste.

Un pezzo di me si specchia in quell’acqua triste,

e non riesco a dormire. Questo jazz mi accompagna il cuore.

Queste note mi cantano. Non mie le parole, ma loro,

seppur dentro di me, in fondo. Sono sola.

Come il fiato di questo strumento, come la vita di questo musicista.

Ma sento da lontano che si apre un portone…

Sarai forse tu e la tua chitarra, o più probabilmente

la sveglia di un sogno ad occhi svegli dal sonno.

Ammiro ancora la neve, e a ogni chicco di splendore

associo un rumore, un suono di tasto da pianoforte,

o una percussione leggera. Voglio dare un nome

a tutte le parti di te, così da comporti in musica

e restituire alla natura la tenera sorpresa

di averti come suo nuovo elemento.

 

Piano e sensuale la neve fiocca sul giardino,

velata della tela d’inverno che si trama da sola,

nello spazio bianco tra il cielo e la terra.

Abbracciabile sei tu, come questa canzone

chiama se stessa per ricordarsi di esserci.

Il mondo nel frattempo gioca a palle di neve:

i pini stanchi si liberano dal peso del candore

che li abbellisce, sputando dalle vette

fette di nevi appallottolate. E a guardarle

sembrano nuvole che s’addensano

sui rami invisibili di verde d’aghi.

E il mondo rigioca, alternando piccole stasi

a lunghe piogge di cedevolezze

 tonde come corone di maestà, o ghirigori di bambini.

Ma se dovessi perdere tutto questo

non saprei più come respirare la libertà che mi ispira

e mi aleggia tutt’attorno come spirale di vento caldo.

Allora perdo il tempo prezioso, che di certo

se ne infischia delle mie paure dell’abbandono.

Ma non mi pento di un solo istante,

fissato così dal mio sussurro di fiato

sopra il vetro attento della finestra di casa.

Non so se è il mondo che va avanti,

oppure io che resto ferma;

ma che importa spiegare l’inspiegabile

quando alla fine inizia sempre da capo

per non smetterla mai?

Mi concedo la vista di questo quadro vivo,

mentre mia sorella dorme e io non voglio svegliarla.

Non ho bisogno di nessun altro se non della fusione di me

dentro questo spettacolo di musica e visione.

Canzone è la scatola dove custodisco la mia vita,

nascosta sotto il letto dei sogni che faccio

nella sera dell’anima. Coinvolgimi in quello che sei

senza farmi attendere il tasto ‘play’. Avvicinati qui.

Ti sfamerò con questa neve che coprirà

la tua sete di meraviglia, e tu non chiederai altro

oltre un’altra bottiglia di questo veleno perfetto,

fatto della miscela di suoni e di ghiaccio,

fuso dal tepore di un camino di note, infiammate

dalle emozioni dei colti cantori per i poetici candori.

Lo sfiocchettare dei petali di neve

è ora in pausa di riflessione.

Ed io ancora non so perché tu non ci sei.

5. “Prima notte di neve”

14 settembre 2011

Dentro un bianco di porcellana,

dentro la custodia di questa mattina,

il cielo sui tetti dorme in sordina.

Riposa fuori orario,

riposa stanco mentre fuori fa giorno,

e senza preavviso si colora il ritorno.

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4. “Utopici apici”

14 settembre 2011

Col freddo che fa ho bisogno di un po’ di calore

e stanotte una tazza fumante non fa abbastanza tepore.

Stasera si va, si parte lontano.

Stasera si partirà per le strade invano.

Sentieri un po’ neri di scuro di vago:

pensieri non veri o non realizzabili.

Baciami la Vita, che col tempo si sfoglia,

tu muovi le dita da suonator di chitarra.

Movenze lente, movenze accurate

scuci il vestito di queste lunghe giornate.

Entra la notte, color luna piena,

disegnami brividi giù per la schiena.

Penetra i ricci che ho sulla testa,

affonda le mani come nave in tempesta.

Sfioriamoci assieme, uniamoci a fondo,

vivere fa bene e stai sorridendo.

La ragione è volata, non ha posto sul mondo,

non sono orientata, e sto trasalendo.

Un non luogo mi accoglie, utopici apici.

Voglio esser tua moglie o semplici baci.

E minuti di ore ed ore, secondi infiniti.

E spinte di gioia e dolore, bene assortiti.

E non lasciarmi la mano quando tutto è finito,

e non lasciarmi sola come solo è il segreto.

Ma ora non uscire perché fuori non è sicuro,

io sono dimora e tu ospite puro.

E d’accordo che sono io casa ad aver più paura,

e va bene che sei tu abitante a tenermi all’oscuro

da eventuali scomparse, dissertazioni da vile,

da proverbiali sentenze che danno l’uomo immaturo.

Dondola e oscilla sulla mia altalena,

una goccia ti brilla in mezzo alla schiena.

E poi pupille che mordono i sensi

delle papille che ispirano i sessi.

Tamburo percuoti, chitarra arpeggia,

maracas scuoti, contrabbasso troneggia.

E suonami ovunque tu mi possa suonare,

e suonami pure dove non puoi toccare.

Delicato il sorriso che mi spalanca la bocca

ebbro del paradiso a cui il mio viso si attacca.

E spacca barriere di ferro, spacca e sai cosa vede:

una vergine concupiscente che non si ravvede.

Avanti e indietro è la strada,

avanti, ma non puoi più tornare.

Con le parole fare l’amore,

con le parole lasciami fare.

(titolo da “Hotel Supramonte”- F. De André)

Idiota, come una donna innamorata.

Ferita, come una macchina ammaccata.

Condannata, da un criminale giudicata,

da una vecchia disegnata, da una bimba consigliata.

Sparita, come aria mai veduta.

Sentita, come aria soffiata.

Corrosa, una poesia quale prosa.

Corposa, una montagna come sposa.

Sognata, una realtà mai avverata.

Sperata, ma di verde mai vestita.

Spogliata, una foglia già caduta, una quercia caducata,

una mela già mangiata, una primizia già scaduta.

Una cravatta allentata, una stella un po’ caduta,

una bocca mai baciata, libera incatenata,

rea pregiudicata, ladra incensurata.

Cantata, ha una voce un poco muta.

Costosa, una offerta dispendiosa,

una vergine maliziosa, una puttana timorosa.

Curiosa, una sorpresa già scartata.

Stonata, una nota già azzeccata.

Picchiata, una pelle deturpata.

Uccisa, sopravvissuta un po’ derisa.

Elogiata, una Venere imbruttita,

una magra appesantita, una musa non gradita.

Delusa, per quella musa non si ha scusa.

Essiccata, una passione consumata.

Passata, una giovane invecchiata, una pagina ingiallita,

una stoffa rattrappita, una festa un po’ finita.

Sfumata, come tinta scolorita.

Simboleggiata, una santa scomunicata.

Spettinata, una riccia ordinata.

E poi amata, quale estrosa un po’ normale, mediocrità originale,

una notizia da giornale, un artificio naturale.

Compostezza un po’ volgare, un peccato quel finale,

un principio terminale, conservatore sentimentale.

Doppia, una eterna finta coppia.

Unilaterale, quell’amore è surreale.

Lontano, come l’uomo e la sua mano.

Distante, il cuor di lui è latitante. E la sua mente,

non ti lascia indifferente, poetessa tu del niente,

cantore lui suadente, vincitrice già perdente.

E io t’amo… io son fiore e tu sei ramo.

Silente, in un gemito impaziente.

Perdono, non emetterò quel suono.

‘Fa niente’, la tua anima strafottente.

Ancor sola, non mi consola una parola.

Attesa, per una mai prevista ascesa.

Sospesa, in realtà immaginata, tra una mappa e una cascata,

didascalia comprovata, indicazione sperimentata.

Usata, quella mappa l’hai stracciata.

Poi fuori, sono sulla staccionata, la tua auto hai accesa,

e lì sola m’hai lasciata, dispersa indifesa.

Teoria accertata, una donna mai amata è una donna abbandonata.

E se mi hai mal considerata, non mi hai mai capita.

– un appunto.

13 settembre 2011

Essendo questi i primi post, urge immediata una spiegazione – probabilmente più per mettermi in pace con me stessa che con gli eventuali lettori (che non ho).

Non riesco a sacrificare (quasi) nessuna poesia. Poesia dopo poesia, il loro stile cambia. Nel contenuto e nella forma. Basta attendere.

(titolo da “Romeo and Juliet” – Dire Straits)

 

A volte mi chiedo se tra le rime di una poesia d’amore

possa esserci verità.

Me lo chiedo e richiedo, ma poi, in fondo, chissà.

Con te vorrei aprirmi, parlare in libertà,

ma non riesco a trovare una frase più onesta di “ti amo”,

perciò cambierò tono e bandirò l’onestà.

Ti racconterò della luna, dei raggi che non ha.

Ti porterò nel mio cuore e nel cuore della città.

Non proferirò parola alcuna su come tu sia la mia metà.

Accenderò una sola candela e resterò a bruciare, qua.

Senza vincoli in vicoli di paesini di pietra,

scolpiti dentro la memoria soffici come la seta.

E apparizioni virtuali, virtuose sobrietà,

o accessori minimali di ricordi e castità.

Non son degna di iniziare tra le corde della tua chitarra;

non son degna di finire sulle ali di una farfalla,

che danzerebbe sui tuoi capelli cantandoti da sorella:

“Non lasciartela sfuggire, è lei la tua anima gemella”.

1.

13 settembre 2011

Avrei voluto scrivere in altri giorni.

Avrei voluto ricordare di essere stata felice.

Mi facevo domande, ma riuscivo a dominarle.

Non sapere era quasi seducente.

Non capire, un gioco d’amore e di istanti.

Ora, invece, l’incertezza mi scava grossi solchi nella testa

e me li riempie di se stessa.

Nei miei pensieri, solo lui. Nelle parole, solo lui.

Nelle canzoni, solo lui. Nei ricordi, solo lui.

Vorrei essere ancora in grado di disgiungere pensieri e sogni,

perché è da quando sono tornata

che non smettono di tormentarmi.

Ho pensato di poter vivere senza accorgermi del domani,

ma in fondo non ne sono capace.

Ho preso ciò che mi è stato offerto, più che potevo,

per non dover poi rimproverare me stessa di non aver osato.

Ma ora ne ho ancora bisogno. Tanto.

E invece mi ritrovo sola, di nuovo,

sospirando i suoi baci, le sue note, la sua voce.

Torna da me, se mai sei stato con me.

L’amore non corrisposto vive di sé. Si auto-alimenta e si auto-flagella. L’oggetto d’amore non ha colpa alcuna – se non quella di non saperci sottrarre alla sua meraviglia. Una meraviglia tale da meritare di essere vissuta a ogni costo. A ogni costo. Parole e pensieri è allora tutto ciò che ci resta. Poiché la passione, invece, non conosce controllo.

Questa è una storia. Una storia in versi.

Ogni poesia è un capitolo di vita, e ogni dettaglio un tassello verso un nuovo sviluppo.